Fausta Bonfiglio: un’intervista alla scoperta dell’arte della ceramica

Ilaria Polo Pubblicato il 16 Maggio 2021

In via Venini 83, si trova un piccolo laboratorio di ceramica in cui adulti e bambini sperimentano la loro creatività guidati dalla professionalità e dall’esperienza della scultrice Fausta Bonfiglio. 

Incuriositi dalla sua arte e dalla sua simpatia, abbiamo deciso di conoscerla meglio… chissà se vi verrà voglia di diventare piccoli scultori!

Ciao Fausta, raccontaci un po’ di te!

Nata a L’Aquila, mi sono trasferita a Milano per studiare al Liceo Artistico di Brera proseguendo successivamente gli studi alla Scuola di Scultura del Castello Sforzesco e all’Accademia di Brera.

Nella mia vita ho avuto la fortuna di conoscere molti artisti, tra cui Lucio Fontana, Roberto Crippa, Mario Rossello e Agenore Fabbri che hanno influito sulla mia formazione. Ho lavorato per molti anni come insegnante nei laboratori di ceramica di diverse scuole statali di Milano e nel mio studio, dove continuo ad insegnare anche ora che sono in pensione. Insegnare ai giovani ed essere circondata da loro mi permette di tramandare le mie conoscenze artistiche e la mia passione.

Oggi ho quasi 80 anni, ma solo per il mio corpo, perché la mia mente non ha età. Mi sento costantemente come se fossi in un’età bellissima che ho vissuto dai 30 ai 40 anni.

A mio parere, la vita è come un fiume: la vita ti incanala e se tu scegli il canale e l’onda giusta arrivi al mare, bellissimo. Io non mi sono mai impuntata che volessi fare la scultrice, ma mi sono trovata in questo canale che scorreva, ho seguito l’acqua che mi trascinava e sono arrivata a un finale bellissimo. Avvicinandomi all’arte della ceramica ho capito potevo esprimere ciò che sentivo e liberare la mia creatività.

Da dove nasce la tua passione per la scultura e la ceramica? Come si è trasformata nella tua professione? 

Sin da piccola sono sempre stata molto artistica e creativa, prendevo la terra nel mio giardino e la lavoravo per costruire delle casette che poi lasciavo asciugare al sole, ma si rompevano tutte. A 17 anni ho incontrato un maestro che mi ha introdotto al mondo della ceramica e ha saputo veramente farmela amare. Così, con la ceramica ho iniziato a dare forma ai primi oggetti, appassionandomi a tal punto di continuare i miei studi alla Scuola di Scultura del Castello Sforzesco e all’Accademia di Brera per apprendere nuove tecniche e continuare a migliorarmi. 

Ho sempre avuto un forte senso estetico e creativo e questo è stato la mia marcia in più per trasformare quella che era la mia passione in una professione. 
All’età circa di 22 anni ho iniziato a vendere le mie prime ceramiche, anche se non è stato per niente facile, non essendo mai stata una grande commerciante. Infine, mi sono sentita finalmente indipendente a 27 anni quando sono riuscita ad aprire il mio primo laboratorio e da lì ho cominciato ad insegnare cercando di tirare fuori il meglio dai miei allievi. 

Ormai, avendo quasi 80 anni è come se facessi il mio lavoro da tutta la vita e non lo considero neanche un lavoro perché per me è una vera e propria passione, tant’è che d’estate, quando non ho modo di lavorare la terra, ne sento la mancanza. 
Con la ceramica ho imparato che quest’arte richiede molta pazienza e molto tempo, ma alla fine il risultato ripaga sempre la fatica. 

Nel corso degli anni la tua famiglia ti ha sempre supportata?

Mi considero una donna fortunata, perché nella mia vita mi è sempre stato permesso di fare quello che desideravo e di approfondire ciò che sapevo fare. 
Nella mia famiglia, chi più di tutti mi incoraggiava e spronava sono stati mio padre e mia sorella, mentre mia madre non comprendeva molto il mondo dell’arte, tant’è che solo due volte è venuta nel mio studio.

Qual è l’idea che sta dietro alle tue opere?

Nel periodo in cui sono nata alle donne non veniva attribuito troppo valore e anche il fatto di non essermi mai sposata non era visto di buon occhio ai miei tempi, per cui ho sempre preso molto a cuore il tema dell’indipendenza femminile. Da qui nasce il mio “battermi” per le donne, per la loro indipendenza e uguaglianza, sono infatti le donne a essere la mia ispirazione. 
Il mio sogno è sempre stato che le donne diventino indipendenti e uguali agli uomini per stare bene con gli uomini.

C’è un’opera a cui sei particolarmente affezionata?

Le mie opere è come se fossero una mia estensione, come dei figli, è difficile dire quale mi piace di più rispetto a un’altra, anche se ce n’è una a cui sono particolarmente legata che si chiama LOVE. L’opera è costituita da dei quadrati che girano intorno a una sfera, perché io lavoro su due archetipi: il quadrato, che rappresenta l’uomo, e il cerchio, che rappresenta la donna. Il triangolo, invece, rappresenta Dio e il sublime. 

La mia ultima opera, invece, è un muro. L’ho costruito dopo il lockdown, perché in questo momento è come se sentissi che ci siano tanti muri. Dove ci troviamo? Di qua o di là del muro? Non lo so. 
Quest’opera è frutto di un lockdown che mi ha fatto provare molta angoscia per certe cose, come non poter parlare con le persone e non poterle abbracciare.

Una cosa che mi ha colpito del primo lockdown è stato quando una mattina stavo venendo in studio e ho visto venirmi incontro una signora anziana e una più giovane e mi sono detta: “Quando mi passeranno vicino gli darò il buongiorno, finalmente incontro una persona umana!”, loro invece appena mi hanno visto si sono spostate dall’altra parte della strada e questa cosa mi ha ferito tantissimo. 

Donna forte e indipendente, cosa consiglieresti alle altre donne, avendo vissuto la Seconda guerra mondiale e il post?

A tutte le donne direi di farsi valere, di tirare fuori ciò che hanno dentro e di non sentirsi mai in uno stato di inferiorità.
Io penso che noi donne abbiamo tanti lati bellissimi, tante sfaccettature come la femminilità, l’accudimento, la pazienza ed è come se questi lati si fossero un po’ rivoltati contro di noi, sia perché in passato noi donne non abbiamo saputo farci valere, sia perché l’uomo ne ha approfittato per farci sentire inferiori.


All images 2021 © Martina Castellaneta