#whomakesmyclothes: fashion revolution tra coscienza reale e sostenibilità tangibile

Elsa Pagano Pubblicato il 23 Aprile 2020

Siamo in piena Fashion Revolution Week e l’intervista che segue esprime la volontà di approfondire in modo sostanziale e pratico alcuni aspetti del complesso ed importante tema della sostenibilità nel campo della moda, oltre i facili slogan.

Il lavoro di consulente di immagine mi porta a vivere la moda come strumento ed opportunità e per poterne fare buon uso è fondamentale per me approfondirne la conoscenza sotto molteplici punti di vista. Ho la fortuna di collaborare con piccole realtà d’eccellenza della mia città, fatte di persone con background poliedrici e sete di scoperta e riscoperta: una di queste è Gretel Moratto, fashion designer genovese, promotrice ante litteram del “fare moda sostenibile”.

Non perdiamo altro tempo ed entriamo nel magico mondo del “dietro le quinte” di Vezza Boutique, di cui vi ho parlato qui un anno fa nel mio primissimo articolo per Le Strade.

Gretel qual è il tuo concetto di sostenibilità applicato alla moda?

La mia idea su quello che sta succedendo nella moda negli ultimi anni è ambivalente: se da una parte finalmente si sta collettivamente prendendo coscienza della bestialità del fast fashion, e per fast fashion non intendo dei nomi, ma proprio un modo di affrontare la produzione che riguarda trasversalmente l’80% dei capi realizzati, dall’altra mi sembra una sorta di isteria di massa da cavalcare proprio perché di moda, e qui sta il paradosso, purtroppo spesso senza una conoscenza e una coscienza profonde di quello di cui si sta parlando. Nel dibattito spesso si sostiene che sia preferibile il chiasso al silenzio: nì, è appunto la mia posizione. Personalmente non dico mai a me stessa “faccio una scelta invece di un’altra per potermi definire sostenibile”, dal primo vestito che ho pensato le caratteristiche di un approccio sostenibile alla moda erano già intrinseche in esso. Io credo che la formula giusta per rapportarsi con questo tema sia: consapevolezza, misura, costanza.

Cosa rende sostenibile a livello ambientale e personale il tuo lavoro?

È proprio il modo di approcciarsi al lavoro che lo rende sostenibile. Vezza è: una micro produzione che tiene conto della lentezza dei saperi tradizionali, il tentare, per quanto possibile, di far lavorare realtà locali, il cercare di educare le persone. Un’importanza fondamentale per il progetto è la materia prima: i tessuti. I capi sono realizzati principalmente in seta, lana e cotone. Proprio dall’accumulo compulsivo che facevo di preziosi tessuti vintage trovati in negozi genovesi, come Rivara e Isia, è nata la prima collezione.

Sono passati quasi cinque anni da allora e non è possibile produrre sempre con tessuti vintage, servono anche tessuti nuovi. E una percentuale importante del nostro acquisto di “nuovo” proviene da chi ritira i tessuti inutilizzati dai grandi marchi e li rivende, impedendone così lo smaltimento, che ha un forte impatto ambientale. Ci sono inoltre fabbriche che vendono avanzi di partite di tessuto destinate alla grande produzione. Tutto questo ovviamente ha bisogno di una ricerca continua: bisogna trovare e intessere rapporti di fiducia con i fornitori.

In realtà in molti tuoi capi c’è una parte di lavoro dedicata proprio alla preparazione della stoffa, giusto?

Credo di aver spostato la mia ricerca ad un livello successivo: attuare un intervento materico sul tessuto prima di tagliarlo. Tutto ha avuto inizio nel magazzino di Isia. Le stoffe sono cosa “viva” ed è chiaro che subiscano l’agire del tempo. Splendide organze, tulle ricamati, mikado di pura seta che nonostante fossero difettati li ho scelti, e tingendo, evitando le zone problematiche, cambiandone la destinazione d’uso, li ho portati a nuova vita: scherzando con Elisabetta di Isia abbiamo iniziato a chiamarli teneramente “i malati”.

Un altro aspetto importante del mio procedere è riuscire a sfruttare al massimo tutto il tessuto che ho a disposizione. La capsule collection I Mezzeri -quest’anno siamo alla quarta- cerca di obbedire a questo principio già dalla fase della progettazione: la sfida è far stare più modelli possibili sullo stesso Mezzero, rispettandone tutte le simmetrie e le regole sartoriali della confezione. Le T-shirt Mezzero mosaico nascono proprio dalla necessità di sfruttarne anche i piccolissimi avanzi.

L’apice di questo progetto di recupero è arrivato con il vestito Serpentelli, che adeguato stagione dopo stagione, è da due anni un continuativo. Lavorando molto con le sete avevo importanti quantità di avanzi, magari non sufficienti a un nuovo capo o molto irregolari. Buttarle mi sembrava un peccato mortale. Ispirata da un vecchio prendisole a bande colorate di mia madre, a cui ero emotivamente molto legata, è nato il primo Serpentelli: ho ricavato da quei pezzi eterogenei delle bande di seta perfettamente in drittofilo, montandole una ad una e facendole combaciare.

È sicuramente l’abito che meglio racconta della mia ossessione. Tutti questi procedimenti a monte del taglio richiedono un notevole numero di ore, magari passano anche giorni prima di poter iniziare effettivamente a confezionare il capo. Questo modo di procedere per me ha qualcosa di rituale: è un’ode alla lentezza e alla cura; ha a che fare con il rispetto profondo della materia che sto lavorando.

Personalmente subisco il fascino di tutto il processo di ricerca e progettazione che sta alla base dei tuoi abiti: puoi soffermarti sulle fasi che vanno dal moodboard alla scelta dei materiali?

Partiamo dal fondamento che per me ogni abito è il personaggio di un racconto con cui sento l’urgenza di confrontarmi, ogni collezione una sorta di viaggio onirico e sensoriale. Il mio percorso accademico mi ha formata a “pensare per immagini” e quindi una volta definiti i confini del contesto narrativo della collezione fisso le immagini che lo accompagnano nel moodbord. Ogni collezione ha anche la sua colonna sonora: la musica è imprescindibile per il mio processo creativo che si muove principalmente attraverso un procedimento sinestetico. La scelta dei materiali avviene, spesso, in tutte le fasi della produzione; capita che all’ultimo aggiunga un capo perché sono stata folgorata da un tessuto che mi è parso assolutamente pertinente ed indispensabile al racconto.

Ovviamente ogni vestito ha un nome e ovviamente per molti clienti sono solo degli abiti. Quando riesco a trasportare qualcuno nel mio mondo il cerchio si chiude, e mi sento ricompensata per l’eccesso di pensiero legato ad ogni capo.

Ecosostenibilità, consapevolezza e ritorno alle origini: quale futuro per noi?

Purtroppo non sono una persona ottimista. Credo che per una vera consapevolezza, come dicevo prima, la strada da fare sia ancora lunghissima. Avendo una scuola di moda cerchiamo di educare attivamente le persone; quando realizzo un capo su misura cerco di regalare al cliente anche un corredo di nozioni sull’argomento, spiegando ogni aspetto del mio lavoro e le motivazioni delle mie scelte. Forse la parola chiave di tutto questo discorso è tempo. Se si vuole davvero che qualcosa cambi questo è il concetto principe su cui iniziare una riflessione reale.

E adesso chiudiamo con qualche trucchetto ecosostenibile: cosa consigli a chi volesse dare nuova vita ai tessuti conservati o scovati ai mercatini vintage?

Iniziare con lavaggio delicato o con un panno umido e sapone di Marsiglia, per quelli che non possono essere lavati, per ridargli freschezza. Valutare attentamente gli eventuali segni del tempo, aloni, macchie, fili tirati e buchi e utilizzarli di conseguenza. È abbastanza raro il cartellino delle composizioni nei tessuti vintage, soprattutto trovati in fondo al cassettone della prozia o nei mercatini, quindi se si decide di sottoporli a colorazione è necessario avere un’idea generale del tipo di fibra per poter scegliere il tipo di tinta idonea. Come fare? Bisogna sottoporli alla “prova del fuoco”, e fare un’analisi attraverso due sensi: il tatto e l’olfatto. Quindi bruciare un piccolo pezzetto per stabilire se è fibra naturale o sintetica (la viscosa, il cupro, il rayon essendo di origine naturale -ma la fibra è ottenuta attraverso procedimento chimico- appartengono comunque alla prima categoria). Se l’origine è naturale una volta bruciato si sbriciola sotto le dita, se sintetico si appallottolata come appunto la plastica bruciata. Una seconda indagine si può fare tramite l’olfatto: bruciato se sa di letame è seta, di animale bagnato lana, di legnetto o carta bruciati cotone o lino, viscosa o rayon; di plastica bruciata poliestere, nylon e simili.


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