Per definire un centro bisogna prima scegliere il proprio mondo di riferimento, e non deve prevedere necessariamente confini.

Una volta Luca Ballarini (leggi Open House, Torino Stratosferica, Bellissimo) mi ha chiesto cosa sono le città, credo di aver farfugliato un “siamo noi”, esprimendo male il concetto del singolo che diventa più.
A mesi di distanza e a metà del nostro viaggio in Barriera di Milano – che si ferma per andare in spiaggia -, la sintesi per cui avevo optato poco convinta si è rivelata essere vera, almeno per me. Me lo hanno confermato le persone che ho conosciuto nel nostro girovagare e che mi hanno offerto più di uno strumento di lettura per capire le strade che stavamo percorrendo: Alessandro Bulgini, MU.SO., Rosy Togaci, Nicolò Taglia (il suo ritratto uscirà in autunno).
Barriera è raccontata come un quartiere di periferia, ma non è la distanza metrica dal “centro” che può misurarla, né descriverla. Appartiene a Torino dal 1853 e nei secoli ha imparato ad accoglierne quelle contraddizioni che sono diventate la sua essenza.


Dai confini non così definiti, man mano che si distende verso un altro quartiere ne prende la forma. Dove via Milano diventa corso Giulio Cesare subisce le influenze caotiche e colorate di Porta Palazzo, a ovest, le vie e le case si adeguano alla tranquillità popolare di Borgo Vittoria, sull’altro versante si aggancia e viene trascinata dalla riqualificazione di Aurora e Regio Parco, mentre ancora a tratti si abbandona dove incontra Borgo Dora.
Nata come zona di confine per il pagamento dei dazi, è da sempre un’isola produttiva, solcata da vene ferroviarie per il trasporto merci da una zona all’altra della città che oggi respirano sotto una giungla urbana di edera. Per conoscere quest’epoca di fotografie in bianco e nero, bisogna parlare con i nonni torinesi che negli anni ’40 giocavano in quelle campagne e incontravano per strada i fratelli Ballarin del Grande Torino. Era il tempo delle piole e delle balere. La guerra stava arrivando, ma ancora non si sentiva.


Il paesaggio di prati si intervallava a casette basse, orti e botteghe artigianali che, decennio dopo decennio, hanno lasciato spazio all’industria, prima piccola poi grande, con tutta la sua portata rivoluzionaria.
La storia ha iniziato a depositarsi come polvere di passaggi ed è rimasta lì, impregnata nei muri delle case e nei nomi delle strade.
Nel quartiere dove la maggior parte delle vie è dedicata a musicisti e compositori classici, la tradizione ha dovuto lasciar spazio alla numerosissima comunità pugliese che, praticamente per usucapione, ha chiesto e ottenuto di cambiare in Cerignola il nome della piazza fino ad allora intitolata all’ “indimenticato” maestro d’orchestra Jacopo Foroni.


A inizio Novecento le grandi sigle del sistema produttivo italiano, come le OGM Fiat (Officine Grandi Motori), la CEAT e l’INCET hanno iniziato a costruire lì le loro cattedrali richiamando il primo esodo dal sud e la prima ondata di edilizia popolare proletaria. Lo stile liberty di quelle palazzine oggi è immerso e confuso nella varietà architettonica del cuore di Barriera.
Da allora non ha mai perso la vocazione di porto d’approdo e terreno d’incontro nelle migrazioni successive. Le abitazioni si sono poi adeguate al boom degli anni ’60 e i grandi complessi modulari dell’edilizia operaia “con il cucinino” sono piovuti dal cielo come Lego. Era anche il momento dei cartelli “non si affitta ai meridionali”.

Sono seguiti anni lenti di progressivo abbandono, le fabbriche hanno chiuso, le persone si sono ritrovate impoverite di un’identità, gli spazi si sono svuotati.
Ora che il futuro è arrivato, Barriera è un’altra volta il quartiere che più riflette la geografia dei destini del mondo, appassionato da una nuova mescolanza di culture ed etnie: è arrivata l’Africa e la storia, distratta, si ripete.

La faccia resiliente della stessa medaglia è che il grande tradimento dell’industria ha lasciato spazio ad una produttività, svincolata dal solo profitto, che trova un nuovo significato nella cultura al plurale, rimette al centro la partecipazione e si impone come ultimo baluardo della memoria storica dei luoghi.
Accanto ad interventi di recupero post-industriale e di riqualificazione più evidenti perché istituzionali (La Nuvola Lavazza, il museo Ettore Fico, l’Ex-INCET), sono nate e cresciute associazioni e laboratori culturali che oggi rappresentano un punto di riferimento come i Bagni Pubblici di via Agliè, Via Baltea, il Bunker, capeggiati dallo storico e stoico esempio dei Docks Dora.
Le facciate dei grandi palazzi anni ’70 hanno iniziato a colorarsi di murales, i garage ad essere affittati come laboratori artistici, luoghi trascurati sono diventati spazi espositivi, la strada è ritornata protagonista e quelle strade hanno iniziato ad essere raccontate attraverso l’arte.
Un tipo particolare di arte che non vuole soltanto essere contemplata, ma si ribella, critica, si interroga; che si dà il compito, profondamente politico, di richiamarci a noi stessi, insinuando un dubbio di bellezza prima di riabbassare la testa sullo smartphone.

L’arte non ha bisogno di essere spiegata, perché quello che vuole dire è importante tanto quanto quello che suscita in chi la osserva. Non per forza un pensiero, spesso un sentimento.
Di sentimenti Barriera ne provoca tanti. Non è giusto dedicarle gli aggettivi più grigi, come è insensato travestirla da quartiere cool etnochic. Può essere molto bella come molto brutta e dura.

È contradditoria e incoerente ad ogni angolo: in corso Vigevano, i vetri rotti delle OGM Fiat guardano il polo culturale tra Edit e il Museo Ettore Fico crescere di fronte, mentre loro, ferme e abbandonate, aspettano, sperando di non diventare un supermercato.

Barriera non è in equilibrio, è fuori dalle righe, è una sperimentazione quotidiana a cielo aperto, non controllabile. La diversità culturale, la convivenza multietnica, anche la povertà, potranno essere la sua condanna o la sua forza.
È una scelta quotidiana che in grande o in piccolo dobbiamo fare tutti.
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