Nicolò Taglia, quello delle istantanee in bianco e nero, della luce naturale, del “qui e ora”; quello che ha dedicato un’intera mostra agli ami da pesca, e prima ancora alle sue feci ritratte nella panoramica di un anno.
Quello che aveva lo studio artistico in un garage con le pareti tutte nere e senza allacciamenti elettrici in via Pisa 53.
Il Nicolò che ha costruito e raccontato per immagini la morte del tempo con Walter Visentin… non è sempre stato un fotografo.

Frequenta l’arte da quando aveva quindici anni, ma per buona parte della vita la sua anima ha trovato respiro nella botanica.
Vent’anni in cui le piante sono state il suo lavoro, la sua passione, il suo estro; fino a quando la vita non lo ha costretto a fermarsi.
La vita “prima” era dedicata alla progettazione ed alla realizzazione di giardini, parchi e paesaggi.


Una vita tutto sommato normale: nato e cresciuto a Torino, una moglie inglese, due figlie di bellezza rara, un lavoro.
Un giorno qualsiasi, di quelli che pensiamo non succederanno mai a noi, è cambiato tutto.
Un incidente lo ha costretto all’immobilità per quasi un anno. Da quel momento non solo il corpo, ma la vita, si è spezzata e non è più stata quella di prima. Lui non poteva più essere come prima.
Un tempo infinito trascorso a pensare; ore, giorni, mesi ad interrogarsi su un nuovo senso, in un mazzo con le carte rimescolate.
Quando si è rimesso in piedi, con ancora addosso il dolore fisico e mentale, ha pensato di riavvicinarsi alle piante. Il mondo, però, intanto, aveva schiacciato il tasto fast forward e lui si è ritrovato a raccontare gli alberi e i fiori a persone che pur avendoli davanti, andavano a cercali sullo schermo piatto di un cellulare.

Ha iniziato allora ad esplorare il lato meno schematico e convenzionale del dialogo tra Natura e Arte.
Lo ha fatto per lo più in Francia, non a Torino – anche se ci ha provato -, perché quando si tratta di uscire dagli schemi, questa città spesso si spaventa e si ritrae nella sua regale seriosità.
Inizia il periodo delle reinvenzione di sé, dei giardini artistici e delle “calde” banlieues parigine con la natura al centro del contesto e la vita vera sullo sfondo.
È lì, in mezzo ad artisti che lavoravano dieci ore al giorno, quando ritorna il mal di schiena cronico che si porta dietro dall’incidente. Lo sforzo fisico è fuori questione e la sensazione di frustrazione e soffocamento lo aspettano dietro l’angolo.
Sono quelli gli istanti in cui si celebra il punto di non ritorno. Prende in mano la macchinetta fotografica che sua moglie gli ha messo in valigia e inizia “a scattare” quello che gli sta intorno.

Non aveva mai davvero preso in mano una macchina fotografica fino ad allora, ma da quel momento non riesce e non vuole più farne a meno. Inizia la sua produzione, come un impulso irresistibile. La zappa lascia il posto all’obiettivo, quando fotografa quello che lo circonda scompare.
Questa volta però è lui a dettare le regole, questa cosa deve essere senza padroni.
Smette di concepirsi come un artigiano e lascia venire fuori l’artista. La razionalità del denaro non deve sporcare il processo creativo; può venire dopo, questo sì.
Questa volta è lui a scegliere di spezzare in due la sua vita: un lavoro part- time “qualsiasi” gli permette di mantenersi e di rubare l’altra metà del tempo per dedicarsi alla propria personale e libera realizzazione.

Scopre inaspettatamente che la fotografia è il perfetto completamento della sua urgenza espressiva ed è la complice necessaria di un dialogo personale tra sé e il mondo; rappresenta lo strumento ideale per sfruttare la vita e per creare un riflesso di sé che si specchia in quello che sta intorno in un gioco di prospettive.
È per lui ciò che più si avvicina alla filosofia del contemporaneo, all’osservazione del presente, in cui l’unico filtro è il suo sguardo. Attraverso le immagini confronta e scompone argomenti importanti, profondamente reali, a volte “al confine”, rimossi e disturbanti, a volte semplicemente testimoni della bellezza che ci circonda, della poesia del reale.
Dentro le sue istantanee lui non si vede (a meno che non si parli di un autoritratto), ma è presente in modo potente e imprescindibile.

A Torino si dedica e si è dedicato molto. Per lui un artista deve scegliere il suo posto nel mondo e lì applicarsi. Della città vede potenzialità e limiti; disinteressato alla polemica sterile, ma consacrato ad una lettura critica. I suoi lavori sono delle dediche: spesso al territorio, alle strade, ai luoghi; spesso alle persone e alle vite.
Pensa che Torino, abbia pagato per lungo tempo l’aver tradito la sua storia e l’aver disconosciuto una natura costruita sul lavoro, l’immigrazione e la contaminazione. Oggi vede una città in cerca di un’identità, che si perde in tante anime e che non sa cosa fare di sé. Una città che non si conosce, che non sa riconoscere le sue mancanze e quindi non può vedere oltre.
Per questo nel 2012 ha realizzato il progetto Unemployed dedicato ai disoccupati di Mirafiori.
Per questo nel 2013 con alla mano la digitale e una piantina ha tracciato il perimetro di Torino e poi lo ha esplorato, spingendosi ai limiti, entrando e uscendo dai suoi confini.
Per questo nel 2017 ha collaborato con il Ministero dei Beni Culturali al racconto degli studi d’artista recentemente nati in Barriera di Milano.
Sente – perché lo vede tutti giorni – che questa città sta riemergendo e si sta rieducando a puntare il dito verso dove si dovrebbe guardare. Lui ci mette il suo senza aspettarsi nulla, ma credendoci come si crede nelle rivoluzioni.
Se volete mettervi in contatto con Nicolò lo trovate su Facebook e Instagram.
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