Carema è una di quelle parole che indicano allo stesso tempo un vino e un luogo, come Barbaresco, Chablis, Porto o Trento. Una convenzione, questa, che mi ha sempre affascinato molto: perché è un modo di intrecciare le cose con il luogo dove nascono, e di creare attraverso le parole un legame profondo con la terra. Io il Carema (vino) lo conoscevo e l’avevo bevuto più volte, in un periodo in cui mi ero preso bene ad assaggiare i Nebbioli fatti al di fuori della Langa. Ma a Carema (paese) non c’ero mai stato.
Così, quando è saltata fuori l’idea di una gita domenicale con la mia amica sommelier Laura, mi è venuto spontaneo proporre Carema. Anche soltanto per avvicinarmi a quelle montagne che, in quest’inverno senza neve, mi erano rimaste lontane. E Carema è stato.
L’ultimo paese piemontese prima della Valle
Vi sarà capitato almeno una volta di mettervi in viaggio sulla (maledettamente cara) autostrada che da Torino porta alla Valle d’Aosta, e una volta superata l’uscita per Ivrea osservare in lontananza il veloce avvicinarsi del profilo delle prime Alpi. È proprio sul crinale di queste montagne (certo più basse delle grandi vette al confine con Svizzera e Francia, ma altrettanto ripide e aspre) che è cresciuta questa eroica viticultura. Aggrappato sul fianco della gelida Dora Baltea, Carema è l’ultimo paese piemontese prima della Valle, e dista poco meno di un’ora di macchina da Torino.
Noi ci arriviamo in una fresca e nuvolosa mattina di gennaio. Un’aria grigio-azzurra avvolge ogni cosa, quasi come se un perenne filtro drammatico da telefono si fosse piantato fisso su questo paesaggio prealpino. Ci lasciamo alle spalle il letto della valle, dove le linee dell’autostrada e della ferrovia si dilungano confondendosi tra loro, e cominciamo a salire a piedi verso il paese. Il campanile azzurro della chiesa di San Martino che spunta dai tetti delle case ci indica la rotta da seguire. Qualche gatto zampetta tra le vie, per il resto è soltanto il sacro silenzio della domenica mattina.
Tra le stradine che salgono verso il centro, si impongono i terrazzamenti delle vigne, in questo periodo dell’anno addormentate. La forma di coltivazione tradizionale della vite di Carema è la pergola, qui chiamata “tòpia”. Le radici di queste piante affondano nella terra morenica lasciata dalla millenaria ritirata dei ghiacciai, mentre muretti e pilastri di grigia pietra fluviale (la stessa che ricopre i tetti delle case più vecchie del centro) sostengono il peso delle vendemmie. Qualche grappolo di Nebbiolo appassito pende dai rami. Intanto, alcuni contadini potano e scherzano nell’aspro dialetto di queste valli. E noi ci lasciamo travolgere dall’impagabile sensazione di tornare a respirare l’aria di montagna.
La Maiola, il gusto della cucina di casa
Ristorante La Maiola
Via Nazionale, 32 | Carema
Per info e prenotazioni chiamare al numero 0125 805009
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Un colpo di campanile segna in maniera precisa e inequivocabile l’ora del pranzo. D’altronde, il saliscendi tra le vie deserte di Carema ci ha messo fame. Tornando verso il fondo della valle, appena oltre i vigneti più bassi, arriviamo al Ristorante La Maiola. Uno di quei ristoranti che sembrano essersi fermati nel tempo, incastonati nei mitici (e troppo spesso ironizzati) anni Ottanta. Un posto dove trovare quell’ospitalità sanguigna che hanno gli abitanti di montagna dietro la loro scorza burbera. Dove sentirsi per una volta un po’ meno cittadini. E dove godere di una cucina piemontese senza fronzoli e fighetterie da instagrammers (come siamo ormai tutti diventati). E l’unica regola aurea è il gusto franco della cucina di casa.
La proposta prevede la possibilità di scegliere tra un menù fisso e un menù alla carta. Sarà che è domenica, sarà la scarpinata tra le vie del paese, sarà che per oggi vogliamo strafare, ma senza pensarci due volte optiamo entrambi per il menù fisso. La sequenza prevede: un giro di antipasti misti e tagliere di salumi nostrani, un doppio primo di pasta fresca, un bel brasatino con purè e spinaci, e in chiusura il classicissimo semifreddo al torrone. Ad accompagnare il tutto, una bottiglia di Türel: uno schietto taglio di uve rosse della zona (non temete, al Carema ci penseremo tra poco).
Menzione d’onore al piatto di antipasti (battuta di Fassona, flan di verdura con cotechino e un vitello tonnato da capogiro) e ai primi (agnolotti al sugo d’arrosto da applausi e le mitologiche crespelle).
Uno spazio estremamente ristretto di vigne arrampicate alla montagna
Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema
Via Nazionale, 32 | Carema TO
Visite e Degustazioni su prenotazione
Sito | Facebook | Instagram
Tempo di un paio di caffè e siamo di nuovo pronti per tornare in esplorazione. Un leggero fascio di luce si infila tra le nuvole basse, riscaldandoci a stento. Ne approfittiamo per risvegliarci dal torpore del pranzo camminando ancora un po’ lungo gli sterrati che si intrecciano ai vigneti. Tra un cartello e una fontana campeggia il segnale della Via Francigena, che proprio su questi sentieri scende dal Gran San Bernardo verso Ivrea.
E mentre ci chiniamo sotto le pergole spoglie per non sbattere la testa e fantastichiamo su come sarebbe fare la vendemmia su queste montagne, capiamo che è arrivato il momento di andare a conoscere chi il Carema lo fa da oltre sessant’anni: la Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema. Una cantina sociale fondata nel 1960 per salvaguardare il vino di questa terra, che attualmente conta una settantina di soci conferitori. Ad accoglierci nella sala del punto vendita è uno di loro, un ragazzo che ci racconta la storia della cantina e della denominazione. La DOC Carema viene istituita pochi anni dopo la fondazione della cantina, nel 1967, e stabilisce che la sua produzione debba avvenire esclusivamente nei tredici ettari vitati presenti all’interno dell’omonimo comune.
Tredici ettari (poco meno, togliendo le pochissime altre cantine private di Carema) per settanta conferitori: uno spazio estremamente ristretto di vigne arrampicate alla montagna. Per la quasi totalità dei soci, il vino e la cura del vigneto sono una passione o tutt’al più un secondo lavoro; per molti si parla di piccoli appezzamenti di terra ereditati dai nonni e dai padri. Quasi una forma di viticultura arcaica (ancor prima che eroica): casalinga, in un certo modo. E allora la cantina sociale diventa prima di tutto una maniera per preservare questo patrimonio, e poi ancora la forza per poterlo raccontare al mondo.

Il Nebbiolo di Carema
Figlio di questo territorio pedemontano e del clima di bassa valle, il Nebbiolo di Carema si esprime in maniera diversa rispetto ai Nebbioli di Langa. Le ripide coste di roccia morenica su cui nascono queste viti danno vita a vini con un’impronta minerale salmastra. L’altitudine e i forti sbalzi termici autunnali che precedono la vendemmia da un lato impongono verticalità gustativa, dall’altro promettono respiri di rara eleganza. I sentori sono quelli tipici della varietà, giocati su petali macerati di viole e di rose, e su lievi punteggiature di spezie. Il tannino, in armonia con l’acidità: diventa una danza.
Lo assaggiamo in quattro differenti espressioni. Il primo è il Parè, un Canavese Nebbiolo prodotto con le uve che escono dai confini di Carema, che ammicca a una bevuta più semplice e disimpegnata. Passiamo poi al primo Carema, che per disciplinare richiede due anni di affinamento (di cui uno in botti di legno). Qui le cose si complicano, e la trama comincia a virare decisamente sugli accenti tostati dati dal legno, con speziature che variano dall’anice stellato ai chiodi di garofano, e un corpo potente di infuso di rose e confettura di more.
Continuiamo con il Carema Riserva (il più affascinante tra quelli assaggiati), dove il Nebbiolo si esprime in tutta l’eleganza che lo contraddistingue. L’alcol si fa sentire, benché domato da un’acidità tagliente e dissetante. Il profilo olfattivo è avvincente, sebbene la forte componente lignea (che qui si sviluppa su toni scuri di polvere di caffè e cioccolato fondente) tenda in alcuni momenti a prevalere su una spettacolare scorza d’arancio essiccata e radici di rabarbaro. Chiudiamo con il Carema “Selezione”, un vino decisamente più austero e di più difficile comprensione rispetto ai precedenti, destinato a lunga – se non lunghissima – vita, prima di essere apprezzato del tutto.
Il Carema presidio Slow Food
Dal 2014 il Carema è stato inserito nell’elenco degli oltre duecento presidi Slow Food italiani. Un modo per riconoscere il legame viscerale che esiste tra questo vino e un minuscolo fazzoletto di terra strappato alla roccia di montagna. Carema è il risultato di una viticultura artigianale. Su questi alti versanti piemontesi, il re dei vigneti – il Nebbiolo – non ha conosciuto la fortuna e la fama di Barolo. Per questo motivo si è sviluppato in piccole forme di autoproduzione, trovando nella cantina sociale il modo per rafforzare la rete dei rapporti tra i singoli vignaioli che abitavano il paese.
Che forse è proprio questo lo spirito delle comunità montane: la ricerca di piccoli spazi dove restare uniti, per resistere alla dura e meravigliosa vita di montagna. Il Carema nasce da questo: dal fertile corso della Dora (qui ancora limpido e puro, prima di trasformarsi in quella pozza grigiastra che taglia Torino), dalle ultime rocce dell’anfiteatro morenico di Ivrea, che in questo punto già si mutano nelle prime Alpi Pennine, e dall’alternarsi delle diverse generazioni di contadini-montanari.
Per un vino unico che parla di questa terra. Per una terra che parla di questo vino. Nell’identico nome di Carema.
All images © 2022 Andrea Borio
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