Fino a un paio di mesi fa del Baratuciat non sapevo niente. Anzi, non solo non ne sapevo niente, ma se qualcuno avesse anche soltanto pronunciato in mia presenza la parola “Baratuciat”, io avrei pensato si trattasse di uno starnuto. Del tipo: «Hai mai assaggiato un bicchiere di… Baratuciat?», «Salute!… ma ti è venuto il raffreddore?».
Ovviamente si scherza, ma neanche troppo.
Fatto sta che l’incontro con il Baratuciat è stato una di quelle folgorazioni enologiche che raramente mi è capitato di provare (nella mia ancora brevissima vita di assaggiatore di vini). Un po’ per l’eleganza di quel vino bianco così insolito, un po’ per quella storia romantica che gli sta dietro, ma me ne sono subito innamorato. Me lo ricordo quel giorno: era un’infuocata giornata di metà maggio e io ero venuto a Vignale Monferrato per l’ultima edizione di Abaccabianca, un evento dedicato ai vini bianchi piemontesi. Tra questi, un nome inconsueto: il Baratuciat. Ma la cosa non poteva finire lì: dovevo andare più a fondo sulla questione. Raffreddori a parte.
Giuliano Bosio – Viticoltore e Olivicoltore in Valle di Susa
Via Avigliana 37 | Almese (TO)
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Giuliano Bosio, il precursore del Baratuciat
Allora mi sono messo subito in contatto con Giuliano Bosio, che della riscoperta del Baratuciat (e perché parlo di riscoperta lo capirete presto) è stato uno dei precursori. Dopo un paio di messaggi e telefonate, abbiamo organizzato un incontro da lui ad Almese: alle porte della Val Susa. Così, un torrido pomeriggio di giugno ho attraversato mezzo Piemonte (complici alcuni impegni mattutini che avevo in Langa) con il sole puntato negli occhi, per andare a trovarlo e sentire la sua storia.
Giuliano è un uomo di una tempra antica: verace. Classe 1946 e una vita traboccante di storia e simpatia. La sua piccola azienda è arroccata sulle alture che dominano Almese, dritte davanti alla Sacra di San Michele, che svetta sull’altro versante della Valle. Lui mi accoglie con una MS bianca accesa e ben piantata tra le labbra, mentre il sole picchia ancora duro, nonostante i 430 metri di dislivello. E con lo sguardo sornione mi chiede: «vorrai mica dei soldi?», alludendo all’articolo che voglio scrivere. Io lo rassicuro impacciato. E lui prontamente mi risponde: «tanto non te li avrei dati comunque».
Entrambi ridiamo, mentre cerchiamo un angolo di ombra dove sederci. E in quell’istante mi rendo conto che ne sentirò delle belle.

Una storia sommersa
Giuliano non si fa pregare nel raccontarsi, e fin da subito è prodigo di aneddoti e dettagli. Il Baratuciat, mi spiega, è un vitigno antico con una storia recente. È originario della Bassa Val di Susa e fino a un paio di secoli fa (le prime attestazioni ufficiali risalgono a metà Ottocento) era ben radicato nel suo territorio.
Poi, durante il Novecento, il Baratuciat a causa della fillossera lentamente scompare. In seguito è la campagna a spopolarsi. Nell’immediato Dopoguerra, molti contadini abbandonano progressivamente queste terre povere e aspre, sotto l’attrattiva di Torino e della grande industria. Lo stesso Giuliano, nipote di contadini e figlio di operai, approderà all’agricoltura soltanto in tempi recenti, dopo oltre trent’anni passati in FIAT. Infine, quei pochi viticoltori che rimangono preferiscono puntare sull’appeal di altre varietà (vitigni internazionali o altri autoctoni piemontesi, come il Barbera, il Dolcetto e la Neretta Cuneese). Il risultato: a fine anni Ottanta il Baratuciat viene considerato scomparso.
Nessuno ne sapeva più niente: un vino e un vitigno sommersi. Io – mi spiega Giuliano – me lo ricordavo il Baratuciat, perché quando ero ragazzino i miei nonni ne coltivavano ancora una pergola. E come me molti altri figli e nipoti di contadini di queste zone. Eppure, non ne era rimasta neanche una pianta. Potevi andare su e giù quanto volevi sui terreni glaciali di queste colline: non c’era traccia di Baratuciat. O, almeno, nessuno era stato più in grado di riconoscerlo. Ed è qui che entra in gioco Giorgio Falca, il deus ex machina della storia.
La rinascita del Baratuciat
Giorgio Falca era un operaio e viticoltore della zona, all’incirca coetaneo di Giuliano. Intorno alla metà degli anni Novanta, d’accordo con la moglie Liliana, decide di espiantare dal cortile di casa sua, ad Almese, una pergola di vite piantanta nel 1910 dal nonno per fare un po’ di ombra in cortile e dare qualche chilo di uva da tavola. Ma prima di espiantarla, Falca ha un’intuizione: conservarne qualche tralcio da piantare in vigna. Ormai lo avrete capito: era l’unico esemplare fruttifero di Baratuciat rimasto nella zona.
Ma non pensate che tutto questo sia stato soltanto frutto del caso. Falca era consapevole di quello che aveva tra le mani: sapeva benissimo che quella era una pergola di Baratuciat, e soprattutto ricordava l’antico valore vinicolo di quell’uva. Così nel 1992 pianta i primi filari di Baratuciat tra le sue vigne. Negli anni successivi, fa su e già per la Val di Susa, tra una festa di paese e l’altra, portandosi dietro i primi campioni di quel vino da fare assaggiare ai suoi conterranei. In molti lo scherniscono: se sono decenni che non si vinifica, un motivo ci sarà…
Ma com’è tipico di certa gente di montagna, Falca ha la scorza dura e non demorde. È in una di queste occasioni che Giuliano Bosio rimane folgorato dal potenziale del Baratuciat. Così, a inizio Duemila consiglia all’amico di far analizzare quelle viti dalla Facoltà di Agraria di Grugliasco. Un bel giorno Falca si presenta in Università con un tralcio e un grappolo. I professori, incuriositi, gli chiedono cosa avesse tra le mani. Falca, orgoglioso, risponde: Baratuciat! Impossibile, pensano gli accademici, il Baratuciat è scomparso. E invece era possibile: è la rinascita del Baratuciat.

L’azienda agricola di Giuliano
Come dicevamo, Giuliano si innamora fin da subito di quel vino. D’altronde, sono gli stessi anni in cui nasce la sua azienda agricola: nel 2003. Ma prima dell’uva e del vino sono stati i boschi al centro del progetto di Giuliano (boschi che attualmente occupano 10 dei 16 ettari complessivi della proprietà). In quest’ottica c’era soprattutto la volontà di preservare l’ambiente pedemontano della zona, di mettere in sicurezza le aree collinose lasciate incolte e trascurate per anni, di salvaguardare la biodiversità del territorio e di recuperare il paesaggio agrario. Solo in seguito è nato il desiderio di coltivare la vite e di fare il vino.
Così, dopo ai boschi sono arrivati gli uliveti e le piante da frutto. E, nel 2007, le vigne: circa due ettari e mezzo, per una piccola e preziosa produzione di bottiglie. Una buona percentuale di queste, ovviamente, è di Baratuciat. Mentre un’altra parte è composta da vini rossi autoctoni della zona: l’Avanà e il Becuét.
Potete immaginarlo, dopo una storia del genere io ero già in un brodo di giuggiole. Ma c’era forse un modo migliore per concludere il nostro incontro che con una bella degustazione? Non credo… Ormai il sole è basso e comincia quasi a scomparire dietro le montagne, e la gola secca mi fa capire che è arrivata l’ora di un paio di bicchieri di vino.

La degustazione
Da Giuliano il Baratuciat si esprime ad altissimi livelli e in più sfumature. Un esperimento degli ultimi anni è la versione spumante metodo classico, Cin Cin Nato. Una bollicina fine ed elegante, dal sorso fresco, cremoso e avvolgente. Nella variante ferma ritroviamo la stessa eleganza, unita alla franchezza di questo vitigno di montagna. In questo caso abbiamo due bottiglie diverse, corrispondenti ai due cru di Baratuciat di Giuliano.
Il primo è il Gesia Veja, un vino accogliente e di pronta beva. Con note che spaziano dai fiori di montagna alle erbe balsamiche come la salvia e l’eucalipto, fino alla frutta tropicale e alle pesche tabacchiere. Il secondo è l’Àutvin, che viene dalle vigne più alte della proprietà, a quasi seicento metri di altitudine. Un bianco verticale e robusto, con una persistente e complessa trama minerale (che esalta il suo territorio morenico) e un’acidità piacevole e rinfrescante. Chiude il Baratuciat passito, A Passeggio, una marmellata di albicocche che diventa bottiglia di vino, con intriganti rinforzi di miele d’acacia e arance candite.
E già che c’eravamo, vuoi non chiudere con i rossi della casa? Il primo, Le Mute, un taglio di Avanà e Becuét. Un rosso spensierato e giovanile, perfetto per certe sere d’estate (quando proprio non ne puoi più dell’ennesimo bianco). Il secondo, Ël Prussian, è un Becuét in purezza. Più serioso e austero rispetto al cugino, intreccia sentori di viola, piccoli frutti di bosco e pepe nero, su un palato morbido e setoso.
Mentre si è ormai fatta sera e i discorsi – come spesso accade in queste situazioni – si spostano dal vino alle cose della vita, io faccio ancora in tempo a riempire il baule di un paio di casse di vino, prima di rimettermi in viaggio verso Torino.
Ora ho alcune bottiglie di Baratuciat da fare assaggiare in giro, nelle prossime cene d’estate. Dicono che sia anche un buon rimedio per far passare il raffreddore.
Vedremo.
All images @ 2022 Andrea Borio
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